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TurnOn America! [Part TWO]

Continua il diario americano del nostro direttore, che sta percorrendo la East Coast per il suo viaggio di nozze e ne ha approfittato per raccontarci come sono gli States che lo hanno accolto. Se vi siete persi la prima puntata, niente paura: basta cliccare qui.

Giorno quattro

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L’America, eccola, prepotente, luminosa, rumorosa, abbagliante, inutile, chiassosa, spettacolare da farti rimanere senza fiato e inconcludente da irritarti. New York ci da’ il benvenuto come solo lei sa fare. La grande mela è l’America per noi, quella vista nei film, letta tra le pagine di Fitzgerald o di Kerouac che diceva

“…era troppo per crederla vera, così complicata, immensa, insondabile”

È la New York della nostra infanzia, dei nostri sogni anni ottanta.

Passiamo dalla tranquilla Boston all’immensa New York attraverso un viaggio in pullman romantico e davvero sorprendente. Quasi cinque ore di strade innevate, laghi ghiacciati e alberghi desolati. Dal finestrino ci scorre un’America inaspettata, diversa da come ce la immaginavamo, ordinata ma ferma, immobile come congelata a qualche decennio fa.

L’arrivo a New York è caratterizzato dal traffico, tanto, troppo, inesorabile, ma poi eccola lì, con i suoi grattaceli, le sue luci e i suoi rumori. In un attimo siamo catapultati al centro del mondo, mille lingue, colori, suoni, sirene. La folla ci spinge sempre più avanti, quasi inconsapevoli siamo dentro un negozio, carta di credito in mano e tanti sorrisi. “Hi, how are you?” chiedono tutti… come vuoi che stia? Non sono più io, mi avete rapito, mi sono lasciato rapire, e, come l’effetto della miglior droga, dopo un po’ svanisce, ti riprendi, stai bene, hai solo qualche busta in più nelle mani… ma smetto quando voglio.

Giorno cinque

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Credo che non si capisca in fondo New York se non la si vive almeno una volta nella vita. Negli anni abbiamo sentito migliaia di aggettivi accostati alla grande mela: the big city, the center of the universe, the city that never sleeps, melting pot… tutti sacrosanti, tutti incredibilmente veri. New York, che piaccia o no, è il centro del mondo occidentale, con le sue luci le sue strade enormi e i suoi negozi.

Oggi decidiamo di passare la giornata per musei, o almeno siamo usciti di buon ora dell’albergo con questa intenzione. Passeggiamo di prima mattina a Central Park, ammiriamo il Plaza, uno dei tanti investimenti di Donald T. e, dopo aver fatto colazione, raggiungiamo la punta estrema di Manhattan per il memoriale 11/9. Ora, la si può pensare come uno vuole, si possono avere tante opinioni a riguardo, ma qui il tempo si è letteralmente fermato.

Per la nostra generazione inevitabilmente è stato l’evento che ha cambiato la nostra vita: ognuno di noi si  ricorda quegli attimi, quei momenti, cosa stava facendo, cosa ha pensato subito dopo, la paura, la consapevolezza di essere così vulnerabili. Non ero mai stato a New York nel 2001, ma quel giorno era come se tutto fosse successo sotto casa.

Il World Trade Centre adesso si apre a noi con la forte presenza del ricordo di quel giorno. È come se le torri non siano mai cadute. Due enormi quadrati ricordano le basi dei grattaceli con i nomi di tutte le vittime incise sopra. C’è chi ogni mattina porta i fiori per i compleanni di quelle anime strappate alle proprie vite, il silenzio è irreale e paurosamente vivo. Visitiamo anche il museo e, come sopra, anche qui tutto sembra essersi fermato, come dentro ad una bolla. Il giro passa attraverso le fondamenta delle Twins Towers. Ci sono reperti, foto, video. Tutto ci lascia senza fiato. In fila per entrare notiamo tanti americani, famiglie, bambini, il loro attaccamento alla nazione passa anche e soprattutto da qui, creando una memoria storica che, almeno dal loro punto di vista, sia d’insegnamento alle generazioni future, salvo poi votare per Trump.

Trump, già, lui. New York è la sua città, i newyorchesi però non sembrano amarlo particolarmente. Nei negozi di souvenir c’è qualche foto o maglietta, ma i baracchini lungo la strada mostrano ancora con orgoglio e rimpianto le immagini della famiglia Obama. Per passare davanti la Trump Tower comunque c’è bisogno di un controllo stile aeroporto, non per entrare, solo per passare sul marciapiede, con relativa fila d’ingresso e di uscita. Già… un presidente del popolo vicino ai suoi cittadini, che si fida così tanto di loro da non farli neanche passare sul marciapiede davanti casa!

Giorno sei

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Capodanno a NYC. Leggere attentamente. Allora andiamo per gradi. La giornata del 31 è stata piena zeppa, abbiamo visto tanto e ci siamo organizzati così bene, che ci ha chiamati il Lussemburgo per lavorare con loro agli affari interni. Tutto era deciso: luoghi, musei, trasporti, orari, tutto meno che cosa fare a capodanno, dove passare la mezzanotte.

Adesso, questa domanda sembra una banalità lo so, è il classico quesito che terrorizza la maggior parte di noi nei mesi antecedenti la notte di San Silvestro, ma questa volta, almeno per noi, non è mai stata così vera. Non sapevamo assolutamente cosa fare: i ristoranti sono inaccessibili, i locali non proprio il nostro ambiente ideale, per non parlare di Times Square. La piazza è chiusa già dalla mattina, transenne ovunque, file chilometriche, controlli, freddo, ancora file, ancora controlli. Poi per cosa? Aspettare la tanto famosa sfera che scende e nulla di più. No ecco… non fa per noi, assolutamente.

Decidiamo intanto di girare come da programma, visitiamo il museo di storia naturale, tornado indietro ai tempi delle medie e il Guggenheim, capendo che spesso non tutto è arte e infine gli Heights, un quartiere di Brooklyn dove gli abitanti si sfidano a suon di luci di Natale sulle proprie abitazioni. Qualcosa di veramente assurdo: per arrivarci bisogna farsi tutta la città in metro, passando per zone che forse non sono così invitanti, ma poi all’arrivo capisci il vero significato della parola Natale per loro. Luci, colori, suoni, un qualcosa lontano anni luce dal sobrio, ma davvero unico. Statue di sant’Antonio di Padova ad ogni angolo, vera celebrità da queste parti al pari di Spiderman e Frozen, se non incredibilmente di più.

Finito il giro, ormai quasi all’ora di cena, ci fermiamo a Brooklyn con lo skyline della città davanti e la voglia di mangiare qualcosa. Giriamo qualche ristorante, ma ovviamente veniamo respinti come i testimoni di Geova. Presi dallo sconforto entriamo nell’ultimo avamposto culinario insieme ad un’altra coppia di connazionali. Credono siamo tutti insieme, speranzosi aspettiamo e ci dicono di attendere qualche minuto. Nell’attesa si avvicina un’altra coppia del Bel Paese, diventiamo sei e ne esce fuori un cenone che neanche nel profondo sud. Mancano solo lenticchie, cotechino e la tombola finale e per il resto siamo a posto.

Per mezzanotte torniamo sotto il ponte, vista Statua della Libertà: ci godiamo i fuochi e la calma del posto, baci e abbracci e tanti saluti al 2016. Gli italiani, quando fanno gruppo, una soluzione la trovano sempre, anche nella città più caotica al mondo in questo periodo. Passata la mezzanotte torniamo in centro, polizia ovunque ma la sensazione di essere al sicuro, poi certo… vai a vedere se è vero.

Brindisi con vista dell’Empire e alle tre siamo in albergo. Gli americani festeggiano con un entusiasmo che neanche fosse stato il peggior anno di sempre, bevono come spugne, ma alla fine sono innocui. Sono dei bambinoni con i loro enormi giocattoli e i loro lustrini, non sono cattivi. Secondo me si sentono semplicemente molto soli, il problema però è che spesso, come tutti i bulli nelle scuole, si sono fatti prendere un po’ troppo la mano.

[to be continued…]