Politica e silenzio

Tra mare e montagna, ho sempre preferito la montagna. Questione di gusti, sicuramente. Una delle caratteristiche che solo la montagna riesce ormai ad assicurare è il silenzio.

Qualche giorno fa ne ho assaporato un assaggio mentre ero seduto in seggiovia per raggiungere una delle tante vette dell’Appennino abruzzese.

Ero seduto, sospeso, con la mia piccola Agnese, 3 anni e mezzo. La sua prima volta in seggiovia, senza troppa paura (a differenza del papà!). Insieme, abbiamo gustato per qualche minuto quel silenzio così strano e inedito. In montagna, stiamo imparando a riconoscere ogni suono e ogni rumore: il cinguettio di un piccolo uccello o il “grido” del falco, il calpestio di un essere vivente sopra un manto di foglie secche, il vento che accarezza la faccia e i capelli.

In città o in campagna è quasi impossibile isolare e riconoscere i suoni della natura. E poter rispondere alla domanda “cos’è questo rumore?” di una bimba curiosa di tre anni, senza distrazioni e frastuoni, è un piccolo privilegio che non scambierei per nessuna cosa al mondo.

In montagna, il silenzio può esser totale. Il mare non riesce ad assicurarlo: anche nella spiaggia più bella, quella meno antropizzata, le onde scandiscono il tempo e catturano l’attenzione del nostro udito. Se poi la spiaggia si popola di turisti, le onde si limitano a fare da sottofondo a grida, musica più o meno assordante, rumori di motori di macchine o di moto, altoparlanti, “coccobbbello-coccofresco” e così via.

Le nostre vite sono ormai accompagnate costantemente dal rumore. Un suono fisso e per alcuni versi frastornante, che non ci lascia mai. Al rumore esterno, si accompagna il rumore interno, assicurato da una vita sempre connessa: siamo antenne che ricevono ogni secondo migliaia di “suoni”. Parole, video, rumori di ogni sorta. A cui rispondiamo a nostra volta emettendo altri rumori, senza chiederci se vi sia realmente bisogno di aggiungere qualcosa al flusso incessante di comunicazione in cui siamo immersi.

Quest’anno, persino le vacanze estive sono state accompagnate incessantemente dalle parole della politica, che grazie alla crisi di Governo in atto, non si è fermata neanche un giorno: milioni di dichiarazioni amplificate dai media, commenti che precedono i fatti, poi li accompagnano e li seguono. E che non si limitano a questo o quel giornalista. Tutti commentano, ognuno aggiunge qualcosa al chiacchiericcio indistinto. E così, nel flusso continuo e costante, ogni suono si confonde, perde di valore. 

Eppure, mai come oggi la politica ha bisogno di silenzio. A tutti i livelli, in qualsiasi momento (non solo in vacanza) e qualunque sia il “ruolo” che ciascuno di noi ricopre nella polis.

Il silenzio è un’opportunità. Per chi fa politica, è quasi una necessità. Perché serve a riconnettersi con le radici del proprio impegno, in un’epoca di grande solitudine. Senza più partiti e aggregazioni, senza comunità di riferimento, la politica è divenuta ormai avventura solitaria. La solitudine, dipinta dalla cultura dominante come una risorsa(“nessun legame, nessun condizionamento, nessun limite”), è in realtà – molto spesso – preludio di fallimenti più o meno grandi. Il cui peso non può esser condiviso (quasi) con nessuno. Esser soli non ci protegge, poi, dal condizionamento più grande e più pericoloso: quello esercitato da noi stessi, dai nostri istinti più remoti, dai lati peggiori del nostro carattere.

Il silenzio, perciò, aiuta ad ascoltarsi, a fare i conti con i propri limiti, a fare bilanci del proprio impegno, a recuperare una dimensione interiore senza la quale la politica diventa mero esercizio di potere. Contrariamente a ciò che suggeriscono i luoghi comuni, il potere fine a se stesso non porta mai troppo lontano.

Il silenzio ci consente di recuperare la dimensione affettiva della nostra esistenza: quei legami che sono la base del nostro impegno. “Staccare la spina” – che significa scegliere di disconnettersi dal flusso di comunicazione nel quale siamo immersi – ci permette di dedicare tempo alle persone che amiamo e con cui abbiamo scelto di condividere la nostra vita. Sono spesso le stesse persone che ci hanno spinto ad impegnarci, le stesse a cui il nostro impegno chiede i sacrifici più grandi, perché la politica è quasi sempre tempo sottratto a noi-con-loro. 

Il silenzio, poi, serve a valutare. In società sempre più complesse e con una politica ormai schiacciata su slogan comodi ma assai poco lungimiranti, il silenzio è un buon metodo per restituire serietà e rigore all’impegno in politica. Serietà e rigore che consentono di incidere veramente sui processi e sui fenomeni che chi ricopre ruoli politici è chiamato a governare. Senza conoscenza approfondita, senza studio, senza elaborazione, la politica si limita a “intrattenere”, diviene un inutile esercizio di retorica e propaganda.

una politica che non riesce a cambiare le cose, non serve a nulla. Alla lunga, anzi, crea malcontento, disaffezione, abbandono. Esattamente l’opposto di ciò di cui abbiamo bisogno oggi.

Infine, il silenzio è una strategia comunicativa. Saper alternare parole ad assenza di parole, permette di esser padroni della propria comunicazione: scegliere quando, come e per quale motivo parlare, farlo solo se si ha qualcosa di importante da dire, se quello che diremo può “fare la differenza”. 

Il silenzio è una forma di comunicazione: scegliere di non parlare significa dire che una data questione non è importante. O – meglio – che su un certo tema si preferisce studiare e approfondire anziché dover dire subito qualcosa di inesatto o parziale. Del resto, non può esistere un politico “tuttologo” così come non esiste una persona in grado di parlare – con cognizione di causa e suscitando interesse – di qualsiasi cosa.

Il silenzio permette di governare le aspettative dei cittadini: quanti politici hanno pagato a caro prezzo parole pronunciate in altri contesti, mentre magari erano all’opposizione e si ergevano a fustigatori di chi amministrava, per poi mostrarsi incapaci di dare le stesse risposte celeri ed esaustive, che pretendevano dal Sindaco di turno? Occorre uscire, secondo me, dall’ipocrisia di dipingersi come “salvatori della Patria”. Risolvere problemi, elaborare risposte politiche è sempre un processo collettivo, che quasi sempre chiama in causa non solo chi amministra, ma anche i cittadini, il corpo sociale di un territorio, la società civile, gli attori economici. Un grande lavoro di orchestra, che richiede oggi – forse ancor di più di ieri – leadership capaci di coinvolgere e facilitare, anziché tuttologi chiacchieroni.

P.S. Ho voluto mettere nero su bianco queste riflessioni, proprio perché scaturite da un “silenzio”. Per alcuni giorni, ho scelto di spengere il telefono. Lo consiglio a tutti. Soprattutto a chi, come me, fatica a staccare la spina.