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La frontiera

Se n’è andato quasi nel silenzio, qualche settimana prima di Natale, don Giovanni Vidoni, prete energico e pietra miliare per chi vive a Nuova Florida da più di vent’anni.

Originario del Friuli (dove ormai è sepolto), don Giovanni è stato un uomo dalle mille patrie e dai tanti volti. Sacerdote salesiano, poi missionario in estremo oriente, quindi amministratore apostolico (poco meno di un parroco) nella chiesa di Nuova Florida, dove arrivò negli anni ’80. Infine, originale (e attivissimo) sacerdote “in pensione”, residente a Nettuno ma sempre nostalgico del “suo” vecchio quartiere, dove non disdegnava di tornare almeno due volte l’anno: il giorno del suo compleanno, il primo maggio e nell’anniversario della sua ordinazione, a giugno.

Per chi ha la fortuna/sfortuna di abitare a Nuova Florida dagli anni ’80, don Giovanni è stato il prete della frontiera.

Non prete “di” frontiera, come si definiscono i sacerdoti impegnati a contrastare situazioni di disagio e povertà. Ma “della” frontiera.

Perché la frontiera è un po’ il fil rouge della sua esperienza di uomo e di sacerdote. Sono frontiera i giovani a cui decise di dedicare la propria vita di sacerdote, scegliendo di divenire prete salesiano. Sono frontiera le terre lontane (India e Bangladesh) dove venne inviato in missione. Era frontiera – infine – la Nuova Florida degli anni ’80 e ’90.

Come il lontano West dei pionieri americani, Nuova Florida è stata a lungo terra di nessuno. Prima degli anni ’20 semplicemente non esisteva. Poi la bonifica, la campagna sterminata, quindi le prime strade (rigorosamente sterrate), infine l’abusivismo edilizio che, come la bonifica, ha trasformato in poco più di un decennio la campagna in quartiere residenziale (termine nobile per definire l’ennesimo quartiere dormitorio alle porte di Roma).

Gli anni ’80 e ’90 sono stati per Nuova Florida un tempo sospeso, tra il già e il non ancora. Ricordo ancora i campi che costeggiavano viale Nuova Florida, le strade principali senza pali della luce, la totale assenza di negozi ed esercizi commerciali (ad eccezione di qualche bar, qua e là). Ricordo le prime ville, enormi. Specialmente se confrontate con le minuscole villette da quindici o venti metri quadri di giardino, ritagliato per attirare le famiglie che venivano da Roma, come formaggio per i topi. Ricordo i primi costruttori, dominus indiscussi di quell’epoca e veri “padroni” del quartiere, che si andava plasmando sui loro gusti e grazie all’assenza quasi totale di una politica troppo debole per esigere opere di urbanizzazione primaria.

Poi venne la chiesa. Eretta con un “colpo di mano” in poco più di una notte. Necessaria e abusiva, come gran parte delle case. Poi sanata, non senza qualche problema per chi l’aveva voluta e fatta costruire (c’è anche chi si fece qualche notte di prigione).

Fu don Aldo Zamponi, figura centrale per la storia di Ardea, a volere un sacerdote anche per il nuovo quartiere che stava prendendo forma.

Così arrivò don Giovanni. Un sacerdote missionario, in una terra di missione. Abitò – solo – nella piccola canonica della nuova parrocchia per dieci anni, dall’87 al ’97. A due passi dall’edificio di culto c’era il burrone (la vecchia cava, teatro anche di leggendarie gare di motocross e oggi parco per far fare i bisogni ai cani). Nessuna recinzione: una chiesa, un bosco, un burrone, un prete. E le villette che via via venivano costruite intorno.

Fu don Giovanni ad iniziare il lento processo che ha poi reso comunità (religiosa ma anche civile) le persone che via via compravano una casa nel nuovo quartiere. All’inizio era lui, con i suoi auto-inviti a pranzo o a cena, a percorrere in lungo e in largo quella campagna che si stava trasformando in città, per creare collante tra persone disperse come monadi in quelle praterie deserte. Poi le prime feste di quartiere, il primo oratorio per i ragazzi, il catechismo nell’unica stanza che la nuova parrocchia poteva offrire e che ben presto divenne del tutto insufficiente. Le gomme gettate a pioggia ai ragazzini fuori dalla veranda della parrocchia, alla fine della messa domenicale (chissà dove le prendeva!). Poi venne il periodo dei primi “ragazzacci”, i gesti vandalici alla chiesa, la macchina gettata nel burrone.

Quando don Giovanni, ormai quasi ottantenne, si ritirò “per raggiunti limiti di età” (era l’ottobre 1997), Nuova Florida aveva iniziato il processo di “normalizzazione”: le villette ormai lambivano tutte le strade del quartiere, il “peso” dei costruttori stava ormai svanendo di pari passo con lo spazio non occupato da case, erano già comparsi i primi supermercati e di lì a poco sarebbero sorte farmacia, banca, centro sportivo. La parrocchia di San Gaetano da Thiene ora aveva una recinzione (che metteva al sicuro macchine e abitanti). La frontiera andava via via scomparendo, così come – forse – la centralità del “boschetto” con la sua chiesa.

Con l’addio a don Giovanni, prete simpatico dai modi poco bigotti, scompare definitivamente anche quel lembo di storia del quartiere. A chi lo ha conosciuto resta l’affetto e il ricordo di una persona che, a suo modo e attraverso il rapporto umano con le persone, ha saputo contribuire a rendere la frontiera un po’ meno frontiera.