coronavirus e calcio

Il Calcio ai tempi del coronavirus. È giusto fermarsi

Serie A si, serie A no, a porte chiuse, a porte aperte, a giugno, ad agosto, a Dubai, un giorno sì e un giorno no, di notte, ovunque ma non in Lombardia. Se ne sono sentite di ogni tipo in questi due mesi e si continua a sentirne. Il dilemma che attanaglia tutti, il quesito che a sentir gli addetti ai lavori leva il sonno a milioni di appassionati in tutto il paese è: ma il calcio quando riparte? 

Nonostante titoli e dichiarazioni, la situazione vera e propria intorno allo sport più seguito della nazione è ben diversa. È innegabile che a noi che siamo amanti di quei novanta minuti in cui tutto sembra fermarsi, in cui tutto è unico e ci sentiamo al centro del mondo, il calcio manca e manca tanto. 

Il calcio è la cosa più importante tra le cose inutili, ha caratterizzato le nostre vite, nel bene e nel male, e raramente siamo stati così tanto tempo lontani. Ma le polemiche che stanno montando in questi giorni sono davvero al limite della sopportazione, per chiunque. Il calcio è un momento di forte aggregazione sociale, di coesione, fatto di riti, attimi e sensazioni, per i giocatori e per i tifosi che sono e saranno sempre parte integrante di esso. Pensarlo senza anche solo una parte di questi è davvero difficile.

Negi ultimi giorni il problema principale è stato che nessuno si è voluto assumere la responsabilità di fermare una volta per tutte il campionato, mettere la parola fine, prendersi una pausa, e magari gettare le basi per ripartire dopo l’estate, se possibile, in totale sicurezza. 

Il ministro Spadafora, la Lega Calcio, la Lega Calciatori, la Federazione, un intreccio di addetti ai lavori che muovono i fili di un teatrino non sono stati capaci di prendersi una responsabilità che sembra doverosa, rispettosa per il Paese, e soprattutto che tutta l’Italia aspetta. Già, perché mentre nella stanza dei bottoni si cerca di capire come e chi deve decidere il da farsi, i tifosi hanno già deciso. Da ogni parte d’Italia e d’Europa la maggior parte dei gruppi ultras hanno espresso la loro ferma volontà di uno stop alle partite, consapevoli del fatto che è giusto e opportuno fare un passo indietro. I capi fila sono stati i gruppi di Bergamo e Brescia, rivali storici sugli spalti ma uniti contro un avversario comune, il virus, e protagonisti tra i volontari nella realizzazione degli ospedali da campo delle proprie città. Li hanno seguiti gli ultras del Bayer Monaco, quelli del Paris Saint-Germain, che hanno ampiamente criticato i festeggiamenti del proprio club dopo l’assegnazione del titolo da parte della lega francese. In Italia si sono aggiunti i tifosi della Roma e del Napoli che hanno fatto da apripista a quelli dell’Atletico di Madrid e del Benfica, solo per citarne alcuni. 

I giocatori non sono da meno. In diversi casi si sono ridotti il compenso, permettendo il pagamento degli stipendi a tutto il personale delle proprie squadre e hanno deciso di tornare, nella maggior parte dei casi, nelle proprie nazioni di origine, vicino alle proprie famiglie, consapevoli che, nonostante i tanti pregiudizi su di loro, è giusto fermarsi, è giusto che anche loro facciano un passo indietro. 

Persino il Coni ha deciso di prendere una posizione ferma e decisa contro la ripartenza. Verrebbe da chiedersi, quindi, chi vuole ripartire, a chi conviene o, meglio, non conviene questo stop. Gli interessi economici sono tanti, è innegabile, il buon senso però deve prevalere, anche perché c’è un universo del mondo del calcio che in questo momento è completamente dimenticato, abbandonato, come se non esistesse: è quello del calcio dilettantistico. 

Serie D, Eccellenza, Promozione, e poi Prima, Seconda e Terza categoria, migliaia di calciatori, di dirigenti, di allenatori. È il calcio più vicino a noi, quello fatto di tanti appassionati che non vivono solo di pallone, ma che rappresentano una realtà forte, integrata spesso nel tessuto sociale di piccole realtà di provincia, di piccoli comuni. Quel calcio è completamente sparito, e rischia di sparire per sempre, perché i fondi sono inevitabilmente lontani anni luce da quelli dei professionisti ma, soprattutto, lo sono le attenzioni della federazione. Quel calcio non ha deciso di fermarsi, lo ha fatto e basta. Anche perché sarebbe impossibile per ora ripartire. Se in serie D, ci possono essere delle deboli speranze, per le altre categorie molti protagonisti devono far fronte ad una crisi lavorativa ed economica personale e il pallone scorre irrimediabilmente in secondo piano. 

La cosa più importante delle cose inutili diventa semplicemente inutile, lasciando vuoti quei campi di terra, quegli spogliatoi sporchi e non curati, i magazzini, le panchine usurate, in silenzio, in silenzio chissà per quanto tempo. Il calcio dei grandi dovrebbe garantire, prima della propria, la sopravvivenza di queste realtà, che soffriranno di più. Se finora sopravvivevano grazie al piccolo ma importante aiuto di qualche azienda amica, da domani sarà sempre più difficile.