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Di carbonara e macchine da scrivere

Intervista esclusiva a Tommaso Fusari

Tommaso Fusari, classe 1992, pometino per caso e romano di professione. La sua carriera di scrittore inizia facendosi conoscere principalmente sul web: “Tempi duri per i romantici” è il suo primo romanzo, dallo stesso nome della pagina Facebook che lo ha portato al successo con l’hashtag #escistolibro. Due anni e 22.600 followers su Instagram dopo, Tommaso sta per pubblicare il suo secondo libro “Quello che non siamo diventati”. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare la sua storia e per parlare della nascita di Stefano e Alice, i protagonisti del suo romanzo.

Chi è Tommaso Fusari e come è iniziata la tua avventura nel mondo della scrittura?

Ho iniziato a scrivere su Facebook nel 2008, scrivevo già da prima ma nessuno l’ha mai saputo, non esistendo ancora social su cui pubblicare i miei scritti. Mai avrei pensato che quel ragazzo che scriveva al massimo temi scolastici sarebbe arrivato così lontano. Non mi sono mai dato un obiettivo preciso, scrivevo perché ne sentivo il bisogno: le persone spesso leggono per sentirsi meno sole, io invece scrivo. Il mio stile di scrittura si è evoluto e trasformato improvvisamente in seguito alla prima vera “tramortita” sentimentale, nel 2014: è cambiato sia il mio modo di scrivere, sia la mia visione del mondo. Quando vivi delle esperienze negative, la tua visione delle cose muta necessariamente. Il mio giro di lettori è pian piano cresciuto e, senza nessun tipo di fretta, nel 2017 è successa una cosa incredibile.Ho ricevuto un messaggio particolare nel momento più inaspettato possibile… mentre lavavo la macchina! Era una specie di “cacciatore di talenti” che lavorava per varie case editrici, un editor Freelancer, a cui una scrittrice con cui collaborava aveva fatto il mio nome. Mi chiese se avessi avuto mai intenzione di scrivere un libro: “No”, risposi io con il fucile dell’autolavaggio ancora in mano. Da lì abbiamo iniziato a lavorare sulla “storia”, che in realtà non avevo ancora ideato. Ripresi un vecchio post che avevo pubblicato su Facebook, un vecchio racconto, e lo trasformai nel prologo del romanzo. Una volta realizzato lo scheletro della trama, iniziarono ad arrivare le prime proposte: scoprimmo che ero da tempo monitorato da Mondadori a mia insaputa. Il fatidico messaggio di Mondadori arrivò all’improvviso durante una pausa pranzo a lavoro: sono stato invitato a Segrate (dove si trova la sede di Mondadori n.d.r.) e lì mi è stato commissionato un romanzo. Fu assurdo, perché obiettivamente non avevo una storia finita, solo una trama. La firma del contratto fu un percorso controcorrente: normalmente una persona prima scrive un testo e poi lo propone alle case editrici. È per questo che non sono in grado di consigliare chi mi chiede come fare a pubblicare un libro: loro hanno cercato me, non viceversa. Questa è la storia di come è nato il mio primo romanzo e di come la mia vita sia cambiata.

Quindi ti sei ritrovato per caso a fare lo scrittore.

In un certo senso. È proverbialmente successo tutto quando meno me l’aspettavo, anzi, quando non lo stavo nemmeno aspettando: all’epoca avevo intenzione di diventare doppiatore. Ho frequentato un corso di doppiaggio ed era il periodo in cui andavo “a tentativi” nelle sale a chiedere di essere ascoltato o quanto meno di assistere a dei turni. Non ho avuto molti risultati. Paradossalmente, penso che se mi fossi impegnato a scrivere un libro per poi proporlo in giro non sarei mai stato preso in considerazione, o almeno non ai livelli che ho raggiunto.

Scrivere è il tuo progetto principale o hai altri piani? 

Dire che vorrei fare lo scrittore è riduttivo, ma non tanto per questioni di ambizione, quanto perché sento un grande bisogno di raccontare qualcosa, con qualsiasi mezzo, sia esso la scrittura, la voce o qualcos’altro, con il mio punto di vista e il mio modo di scrivere. Il complimento più bello che abbia mai ricevuto? “Potrei leggere un tuo testo ovunque senza alcun tipo di firma, e saprei che l’hai scritto tu”. Diventare scrittore mi suona ancora come quando da piccoli si dice “vorrei fare l’astronauta”. Al momento vivo la cosa al meglio che posso e al meglio delle mie capacità, sono molto soddisfatto che mi sia stato commissionato un secondo libro: niente mi era dovuto, avrei potuto essere una semplice meteora e finire nel dimenticatoio, invece mi è successa un’altra cosa bellissima. Mi riservo un po’ il diritto di crederci, ma sempre negando sia successo tutto: testa tra le nuvole ma piedi sempre per terra e avanti per la mia strada.

Sui social sei molto seguito. Facebook non lo usi quasi più e sei principalmente su Instagram. Quanto c’è di vero nelle parole di chi ti definisce “influencer”? 

Poco, ma lo trovo molto divertente! Mi reputo più un “influencer gastronomico”, quello sì. Mi piace molto esplorare con i miei amici i luoghi migliori in cui mangiare: il cibo, nonostante le mie diete ferree, è una costante della mia vita. Non è raro che i miei lettori mi chiedano dove mangiare a Roma. Se proprio mi si vuole affibbiare il nomignolo di “influencer”, in modo scherzoso, sceglierei questa definizione. Per il resto no, non mi reputo assolutamente un “influencer”, mi diverto semplicemente. Su Instagram sono molto bipolare, anzi tripolare: passo da picchi di tristezza a picchi di delirio, con contorno di belle canzoni. Sulla mia bioInstagram mi definisco come “stazione radio”: mi piace pensare di essere una trasmissione radiofonica in cui racconto piccoli pezzi di vita, frammenti di me intervallati da qualche bella canzone in salsa nostalgica.

Una domanda per la tua parte influencer: fammi una classifica tra cacio e pepe, gricia, carbonara e amatriciana.

Senza neanche pensarci: carbonara, amatriciana, gricia, cacio e pepe. La gricia ha quel qualcosa in più che la salva dall’ultimo posto.

Una tua rubrica ricorrente su Instagram consiste nel proporre su richiesta canzoni da abbinare a particolari eventi, situazioni e stati d’animo. È questa la tua parte “radiofonica”?

Tutti pensano che quando si è in un determinato mood si debba ascoltare una canzone apposta per contrastarlo, ritenendola una soluzione matura. La mia è una soluzione più masochista: secondo me tutte le emozioni devono essere accettate e vissute in toto. Allo stesso modo in cui viviamo la felicità a 100 all’ora, il dolore necessita di essere vissuto: credo che cercare di contrastare un mood negativo non sia terapeutico, si rimanda solo il problema. Non cercare di non pensarci ascoltando una canzone allegra, piuttosto piangi e soffri un pochino: entra in quella spirale di pensieri caotici dove non pensi ci sia via di uscita, vivili tutti e poi quando li hai smaltiti sei sicuro non si ripresenteranno. Sono come i chili che perdi: il digiuno ti fa perdere tanti chili ma poi li riprendi tutti, la dieta equilibrata te li butta giù e, se sei bravo, non li rivedi tornare.

Un pezzo importante per te?

Sicuramente Let’s Hurt Tonight degli One Republic: ha accompagnato la stesura di tutto il mio primo libro. Non ho voluto inserire la canzone nella storia per evitare di dare una collocazione temporale al romanzo, e probabilmente non lo farò neanche per il prossimo.

Parlando di “Tempi duri per i romantici”, qual è ora il tuo rapporto con il libro?

Considera che non l’ho mai riletto, nemmeno una volta. Sicuramente userei meno metafore, ne ho fatte davvero troppe, nel prossimo non ce ne sarà nemmeno una per compensare. Il primo libro è come un figlio: gli ho insegnato a camminare ed essere autosufficiente, ora è giusto che faccia il suo corso. Non controllo nemmeno più le vendite, per me ogni foto che arriva ancora oggi dopo quasi due anni è una grandissima soddisfazione. Adoro sapere che molti lettori mi scoprono solo ora, altri se ne sono andati, altri ci sono da sempre: “Tempi duri per i romantici” è espressione di una parte di me che ora sento non esiste più. È stato il modo per scrollarmi di dosso cose che ho vissuto e di cui volevo liberarmi. Molti avvenimenti del libro sono metafore di mie esperienze, è il mio modo per dire addio a determinati avvenimenti del mio passato che ho voluto riversare da qualche parte per non dover riprendere mai più. Puoi ben capire perché non l’ho più riletto.

La soddisfazione più grande che hai avuto?

Sicuramente il fatto che sia stato assegnato come lettura ad una classe di un liceo classico di Aprilia: sapere che dei ragazzi di 1° superiore si avvicinino alla lettura con un mio libro è incredibile. È sempre fantastico essere la “prima volta” di qualcuno.

Inutile dire che leggi tantissimo.

In questo periodo un po’ di meno, però sono sempre stato un lettore assiduo di tutti i generi: leggo principalmente romanzi, l’unico genere con cui non ho familiarità è il “giallo”.

Trovi ispirazione nelle tue letture?

Non lo so: se ti dicessi che mi ispiro volutamente a qualcuno ti direi di no. Forse il mio stile è la somma di tutto ciò che ho letto, un derivato di tutte le mie letture: i dialoghi di “Tempi duri per i romantici” sono palesemente ispirati a quelli di Guido Catalano, che in quel periodo ho letteralmente consumato, nonostante il romanzo non sia per niente simile ai suoi. Sicuramente ci sono delle fonti di ispirazione involontaria, se dovessi specificarne qualcuna non saprei cosa dire.

Oltre ai tuoi romanzi hai sempre scritto storie brevi su Facebook e su Instagram. Che rapporto hai con queste storie?

Credo dipenda dal periodo. Sono tutte legate al mio vissuto quotidiano, ci sono infatti periodi in cui esco di meno che coincidono con fasi artisticamente meno proficue. Tutte le mie storie “social” sono legate ad episodi o ricordi di cose che mi sono accadute uscendo per Roma: ho un rapporto molto intimo con questa città. Scrivo perché ne ho davvero bisogno: sono tutte storie scritte di getto, espressione pura di quello che sento e che devo sfogare. Il mio è un bisogno frenetico di esternare le cose perché a parole non ci riesco mai e spesso non sento di avere persone con cui farlo. Mi aiuta anche a ricordare che sto male: io quando sono felice esco, quando sto male scrivo. Mi consente anche di tenermi in contatto con i lettori: le storie sono una specie di stanza in cui accolgo le persone che mi seguono, per farle sentire il più possibile accettate. Il rapporto che ho con loro è molto bello: non c’è una patina, non c’è distacco, forse è per il fatto che non mi reputi uno scrittore, ma solo una persona fortunata perché è stata notata grazie alla gente che leggeva. Se le mie idee fossero rimaste isolate non sarei arrivato da nessuna parte, è inutile isolarsi da chi ti legge o porsi su un piedistallo: non mi fa sentire né figo né importante, e nemmeno mi interessa. Ciò che voglio è sentirmi capito, sentirmi un “posto bello in cui tornare”.

Nella tua famiglia di lettori sei sicuramente d’esempio per qualcuno.

Si, ma è una cosa che mi mette molto in difficoltà. Molte persone mi chiedono di dare loro un parere su testi che hanno scritto, ma non sento di averne le capacità. Chi sono io per dare un parere o per incoraggiare qualcuno? Non ho né le credenziali né l’esperienza per farlo. Il consiglio che do sempre a chi scrive è semplicemente di non nasconderlo: non serve scrivere solo per sé stessi. Scrivere per qualcuno e farsi leggere è il vero obiettivo della scrittura. Pubblicate quello che scrivete, e col tempo il seguito arriverà. I lettori vengono e si creano da soli, non c’è bisogno di pareri: se li cerchi è per esigenze di autocompiacimento, e secondo me la scrittura va di pari passo con supporto ed empatia, non con l’autocompiacimento.

Prima di scrivere studiavi doppiaggio, hai studiato psicologia e hai fatto teatro. Quanto queste esperienze si riflettono in te e in quello che scrivi?

Il doppiaggio e il teatro sono esperienze molto diverse, ma sono state utili entrambe. Nel doppiaggio non sei scelto per un personaggio, sei tu che devi calarti emotivamente e vocalmente in qualcosa di già costruito e con personalità molto diverse dalle tue. Nel teatro invece sei tu a costruire il personaggio e a metterci del tuo. Penso che il doppiaggio richieda molta più empatia proprio per questo: devi replicare uno stato d’animo, non evidenziarlo e personalizzarlo. Mi hanno aiutato tantissimo a vincere molte delle mie innumerevoli insicurezze e a migliorare la mia esposizione vocale: mi diverto molto a fare letture di qualsiasi testo, e apprendendo la tecnica giusta i testi rendono molto meglio. I miei studi in psicologia no, non mi hanno influenzato. Sono durati due anni, ma ho dovuto abbandonarli, è stato un qualcosa che mi sono cucito addosso senza che mi appartenesse completamente. Dopo una serie di vicissitudini ho deciso di ricominciare la carriera universitaria iscrivendomi al DAMS e studiare “Cinema e Televisione”. Sento il bisogno di formare una cultura di base che non ho e che non voglio costruirmi da solo, ma vorrei anche ampliare i miei strumenti tecnici di scrittura: un obiettivo finale potrebbe essere quello di scrivere sceneggiature, trasportare quello che racconto in immagini.

Se mai dovessero girare il film di “Tempi duri per i romantici” chi vorresti nel cast?

Per il ruolo di Alice sicuramente Camihawke, ma a patto che indossi lenti a contatto scure, perché Alice non ha gli occhi verdi. Stefano è molto difficile vederlo interpretato da chiunque non sia “me”, visto che mi rappresenta così tanto. Per tutta la banda di amici, la scelta sarebbe invece molto facile: sono ispirati dai miei amici nella vita reale, basta prenderli da casa e portarli sul set. Alice deve essere esattamente come l’ho scritta e immaginata, sarei davvero estremamente pignolo nella regia: mi verrebbe da dire che scrivendo mi sono innamorato di Alice, perché rappresenta tutto quello che in quel periodo avrei voluto forse avere.

Qual è invece la genesi del secondo libro?

“Quello che non siamo diventati”, il mio secondo libro, è nato improvvisamente e per caso: ero in macchina con una ragazza, Sara, e l’intera storia mi è apparsa davanti agli occhi come un flash. Mi è sembrato doveroso chiamare la protagonista proprio come lei. Quello è stato solo l’inizio, ho approfondito molto l’idea di base e ho creato la storia. Questa è per me la conferma che non potrei mai fare lo scrittore a tempo pieno: non riesco a creare storie a comando, devo aspettare l’ispirazione improvvisa, e sfruttarla finché dura. Tutta la storia è nata nel giro di 10 minuti di ispirazione coinvolgente. Il susseguirsi degli eventi è stato più ordinario: ho scritto la storia e l’ho presentata a Mondadori. Sicuramente il manoscritto ha ricevuto una corsia preferenziale perché hanno già collaborato con me, ma mi sono ritrovato ad aspettare una risposta come tutti: ci ha messo moltissimo ad arrivare, e non era per niente scontato che fosse  positiva. Ho inviato il romanzo a inizio novembre e sono stato ricontattato a fine dicembre: non è tanto, ma ho vissuto l’attesa con molta ansia. Se non mi avessero detto di sì probabilmente, per come sono fatto io, avrei avuto un crollo totale e avrei pensato di mollare tutto. Per fortuna hanno accettato, mi hanno detto che si percepisce una crescita notevole a livello stilistico, una grande soddisfazione. Ora che mi sono levato questo peso sto lavorando all’editing del romanzo.

Puoi anticiparci qualcosa?

Uno degli argomenti su cui verterà il secondo romanzo è la violenza sulle donne. Ho sentito fosse il momento giusto per parlarne: trovo assurdo siano in molti casi solo le donne a parlarne, e se cominciassero a farlo anche gli uomini sarebbe meglio per tutti. Sono però convinto sia davvero assurdo doverne parlare in generale: per me è qualcosa di così scontato e assodato, non dovremmo insegnare alle donne l’autodifesa, ma magari agli uomini che certe cose non andrebbero fatte.

È un bel passaggio tra i due romanzi: più leggero e dolce il primo, più pesante e profondo il secondo.

Quando annunciai che avrei pubblicato un secondo libro molte persone mi hanno scritto chiedendomi: “mi farai piangere come nel primo?”. La mia risposta è sempre stata: “No, cercherò di fare molto peggio”. Spero sarò all’altezza delle aspettative, sto mettendo tutto me stesso nel testo come ho fatto per “Tempi duri per i romantici”, ma sicuramente un me stesso diverso da quello di due anni fa.

Quando uscirà “Quello che non siamo diventati”?

Si suppone all’inizio dell’estate. Dipende da una serie di fattori, sia di lavoro che devo portare a termine, sia di scadenze di uscita di altri libri da parte di Mondadori: hanno delle scalette da rispettare. La storia inizia in estate, mi piace coincida con la data di uscita.

Tu sei innamorato di Roma, ma vivi a Pomezia. Cosa ti dà la nostra città?

Sono cresciuto a Pomezia, non posso dire che non mi abbia dato nulla. La vita di provincia è però molto particolare, diversa: ti senti sempre vicino a qualcosa che conta ma nel tuo piccolo non conti niente. La vita nella periferia è molto più concentrata, meno dispersiva della vita a Roma. Ho vissuto serenamente qui, anche se ho avuto i miei momenti in cui sarei voluto scappare da un’altra parte. So da dove vengo, diciamo così, cioè dal basso: non sto dicendo che ora sono in alto, sto dicendo che se dovesse andare tutto bene in futuro non dimentico da dove vengo e non rinnegherò le mie origini per i quartieri alti della Roma bene. Nella modesta provincia i sogni hanno un sapore diverso: senti che dovrai fare molta più fatica di chi abita nelle grandi città. A Roma trascorro moltissimo tempo, ne ho davvero bisogno. Per un motivo o per l’altro sono sempre stato più fuori che qui: mia nonna abitava a Monteverde, il mio migliore amico si è trasferito nella capitale. Le serate a Testaccio, a Trastevere, Via del Corso, sono tutte realtà che fanno parte di me sicuramente più di quella che è la vita di Pomezia. Tutto questo spostarmi mi ha portato a non mettere radici, mi sento libero. C’è da dire però che quando sono andato a Milano, ho subito sentito nostalgia di casa: sono assolutamente sicuro che prima o poi, non importa quando, andrò a vivere a Roma. Non ho aspirazioni di nessun tipo: Londra, Milano, Los Angeles, Torino, Amsterdam niente di tutto questo. Io voglio Roma, Roma Sud, ad essere precisi.

Però Torino, come si legge nel tuo romanzo, è una città speciale per te.

A Torino ho vissuto la mia più grande storia d’amore. È il motivo per cui in “Tempi duri per i romantici” l’ho usata come ambientazione: ho ricordi di Torino di quando ero completamente felice.Torino ha avuto un ruolo importante in passato per un vecchio me che ora è scomparso. Non ci sono più tornato. Chissà se quest’anno sarò pronto a visitarla di nuovo. Potrebbe succedere di tutto o niente, emotivamente parlando.

A chi hai dedicato il primo libro e a chi dedicherai “Quello che non siamo diventati”?

Daniela è la mia ex-ragazza di Torino. Il primo giorno che ci conoscemmo mi regalò il suo romanzo preferito, “Amori a tempo determinato”: di nascosto sulla prima pagina scrisse “A chi tira fuori il meglio di te senza chiederlo, a te chiunque tu sia”. Dopo anni mi sembrava cosa doverosa ricambiare il favore, farle la stessa dedica dicendo che è riuscita a tirare fuori il meglio di me e ammettere che terminare la nostra relazione è stato il vero punto di svolta nella mia carriera di scrittore: conoscere la sofferenza amorosa è stato ciò che mi ha formato come scrittore e mi ha reso quello che sono diventato.

“A Daniela, 
che tirò fuori il meglio di me senza chiedermelo
e che, con la fine, diede inizio a tutto.”

Non ho ancora deciso per quanto riguarda il secondo libro, vorrei dedicarlo ai miei lettori, ma già l’ho fatto con il mio e-book “Ci vediamo tra poco”. Sono sicuro sarà un’altra dedica importante, ma non ne ho ancora una pronta.

Perché hai sentito il bisogno di esplorare i dettagli non spiegati del primo libro pubblicando l’e-book?

Perché non li ho potuti raccontare per una questione puramente tecnica: la narrazione è in prima persona, non avrei potuto scrivere dalla prospettiva di Alice. I miei lettori volevano sapere cosa le fosse successo nel dietro le quinte della storia, e ho pensato di fare loro un regalo pubblicando a Natale questo e-book gratuitamente. 

Dove ti vedi e dove ti vorresti vedere tra dieci anni?

Mi vorrei vedere in un piccolo appartamento a Garbatella o a Testaccio, riuscendo a vivere di scrittura. Nella realtà mi vedo sempre in un piccolo appartamento ma non so dove, con un beagle. Come prospettiva mi piace lo stesso, ma spero che tra dieci anni riuscirò a realizzarmi anche sulla base di quello che sto facendo ora e di diventare lo strumento narrativo di qualcuno. Mi piacerebbe vedere i progetti che sto costruendo consolidarsi: ma dopotutto è solo l’inizio.